Shish

Con la solita amica (quella con cui domenica scorsa parlavamo dell’insegnamento del greco) si discuteva ieri del livello infimo della conoscenza dell’inglese da parte degli italiani.

Probabilmente nella memoria di molti continua a risuonare lo shish di Matteo Renzi (che comunque inaspettatamente esiste) ma la verità è che il livello generale della conoscenza dell’inglese da parte degli italiani è prossimo allo zero. E non fanno eccezione le giovani generazioni: secondo i dati dell’EF English Proficiency Index solo il 30% degli studenti degli istituti secondari pubblici, medie e licei, raggiunge il livello B2, ovvero il livello di apprendimento minimo richiesto dal mercato del lavoro. Un livello probabilmente pari o inferiore alla conoscenza dell’italiano che hanno i migranti sbarcati sulle nostre coste e che non ci facciamo scrupolo di mandare al massacro nei campi di pomodori, considerandoli anche sotto il profilo linguistico inadatti a lavori “di concetto”.

A parte il tormentone dell’inglese maccheronico che tuttora imperversa tra i Navigli, a parte gli pseudoanglicismi coniati a gogo, a parte i buontemponi che alzano le barricate per convincerci a pronunciare come se fossero latino parole inglesissime come summit o media, stiamo parlando di un problema serio. Non soltanto continuiamo a danneggiare la capacità delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi a competere sul mercato del lavoro internazionale (i ristoranti di Londra, sempre in cerca di lavapiatti, ringraziano), ma stiamo anche rendendo un pessimo servizio all’attrattività dell’Italia nei confronti dei talenti e degli investitori stranieri. Non so se sia una forma latente di protezionismo, ma di certo è provincialismo, è voglia di starsene indisturbati alla periferia del mondo lasciando che la storia avvenga altrove ché tanto noi teniamo il mare il sole e la pizza.

Ma non serve a nulla moltiplicare le ore d’inglese alle elementari o all’asilo se poi l’insegnamento non si svecchia: è come continuare a premere sull’acceleratore tenendo il motore in folle. Abbiamo bisogno di puntare sulla lingua viva, con docenti rigorosamente ed esclusivamente madrelingua: troppo facile infarcire il programma di regolette che probabilmente risulterebbero oscure anche a David Crystal per nascondere l’ignoranza della lingua viva da parte del corpo docente. E poi: insegnare esclusivamente in inglese ALMENO METÀ DI TUTTE LE MATERIE, ivi comprese le materie umanistiche. E poi il contesto ambientale: più offerta in inglese su radio e televisione, teatro, musica, editoria; smantellare un’industria del doppiaggio ormai stucchevole e antiquata; offrire anche in inglese tutti i servizi pubblici; progredire insomma verso un quasi-bilinguismo sul modello nordeuropeo.

E state tranquilli, ché la pizza continuerà a chiamarsi pizza anche in inglese.

Pubblicato su Eventual Consistency